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Per mare mio amore

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Mi cuci l’amore addosso?  

 

Il nuovo libro di Roberta Lipparini, Per mare mio amore, edito da Terra d’ulivi, si apre con una dichiarazione programmatica: Dicevo e pensavo / come le parole sanno ben curare / lenire / anche se dicono il terrore / o consegnano vergogne alla memoria.

 

I versi che compongono questa nuova opera si pongono sulla scia del precedente, Io ce l’ho un amore: in quello ruotavano intorno a un amore che in parte manifestava una sua corporalità, una presenza, seppure ambigua, sfumata, continuamente giocata sul filo della linea esisto / non esisto; quest ultimo invece dichiara in maniera esplicita che questo amore è un fantasma, una chimera, una sorta di ossessione, che il letto è vuoto, il cuore registra una vacanza, il desiderio è tale da inscenare un bellissimo gioco. Il libro su pone infatti sulla linea della necessità propria del gioco, che non è un diversivo, un’occupazione piacevole del tempo, ma nasce dall’impellenza di un desiderio, dall’emergenza di un vuoto, di una mancanza. Così Roberta mette in scena la mancanza di un amore, e lo fa attraverso il gioco, giocando con le rime, con le assonanze, con un uso sobrio ma avvertito del ritmo, con piccoli stratagemmi estetici che regalano al lettore la sensazione  della messa in scena di un desiderio, di un vuoto da colmare. Quando Roberta scrive per i bambini lo fa con estrema professionalità, da adulta consapevole dei limiti e degli ingredienti adatti a un pubblico giovanissimo. Quando scrive per medicarsi le ferite, come scrive in apertura del libro, lo fa con la grande serietà che i bambini mettono nel gioco, e mette in campo la straordinaria strategia terapeutica del: facciamo finta che.

 

Ti parlo a lungo

ti confido ogni ricordo

frammento particolare

Parlo di te all’acqua del mare

riscrivo sulla sabbia

ogni tua frase

gesto, pensiero

Come se fossi qui

come se esistessi davvero.

 

Roberta dispone già di un suo pubblico affezionato, abituato alla leggerezza, alla soavità dei versi che in realtà affondano le proprie radici nella sofferenza che genera una mancanza, una privazione dolorosa e mortificante come è il bisogno di amore. Un pubblico devoto,  che ama il sorriso che nasce dalla leggerezza di quei versi, nella consepevolezza che spuntano da un terreno rigoglioso di lacrime, dalla sconforto di non sentirsi amati. La devozione che le tributa il suo (piccolo ma nutrito come un esercito esiguo) pubblico trova la sua giustificazione in una duplice evidenza. La prima è costituita da una indubbia commestibilità della sua poesia, dall’uso di un linguaggio accessibile, immediato, leggerissimo, aereo, che trova un facile varco nella sensibilità del lettore: Mi cuci l’amore addosso ? / Stretto stretto / col filo rosso / Stretto stretto / che non deve scappare / forte forte  / che lo devo sentire / così tanto da far battere il cuore / Me lo cuci per favore?

Una leggerezza che sembrerebbe tenere il dramma fuori dalla porta, prenderlo garbatamente in giro, fare finta che non si tratti di vero dramma, fargli le linguacce, imprigionarlo dentro rime facili facili, dentro versi trasparenti, dolcissimi che si fanno assaggiare da un pubblico niente affatto popolare, un pubblico smaliziato, avvezzo a letture ardue ma che possiede la giusta avvedutezza per gustare la tenerezza di questa poesia gelato, questa poesia lecca lecca. La seconda ineccepibile motivazione che lega il pubblico alla poesia di Roberta sta nella fame di amore che tutti avvertiamo. Tutti desideriamo essere amati e tutti sentiamo in maniera atrocemente dolorosa che non siamo amati. Questa comunanza del sentire è alla base della universalità della poesia di Roberta Lipparini. Ci piace soprattutto che ce la spiattelli in maniera deliziosamente leggera, come sa esserlo una filastrocca infantile: Bambola bambola / cuore di pezza / bambola vuole una carezza / e piange lacrime di stoffa blu / per quell’amore / che non c’è più. Che ce la sbatta sul muso sorridendo, facendoci gli occhiolini d’intesa che solo rime facili, ritmi non complicati, sanno suggerire. E meritare così tutta la nostra gratitudine, perché il suo canto riesce ad alleggerire la nostra pena, riesce soprattutto a renderla accettabile sdrammatizzandola, mettendoci quel pizzico di ironia, di levità che ce la rende persino amica, che in fondo ci fa sentire fratelli, accomunati da una stessa, identica fame, ma con sobrietà, senza smancerie, tenendosi al largo da qualsiasi tentazione di tragedia, di autocommiserazione. Unisce sincerità e leggerezza, non ci inganna, non nasconde l’amarezza della verità, ma attraverso una delicatezza dei modi ci incoraggia:

 

Dicevo del conforto

Di quel calore che ti senti accanto

quando la parola ti entra lieve

perché è canto.

 

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